Accabadora di Michela Murgia

Le pagine di Michela Murgia sono intense e molto incisive nel costruire atmosfere al limite tra la realtà ed un limbo senza tempo, dove antiche leggende ed usanze rimaste invariate da secoli convivono con la contemporaneità. L’uso di una lingua piena di forme idiomatiche, espressioni dialettali, parole desuete ma molto evocative costituiscono una gran parte del fascino di questo insolito romanzo.

L’ultima madre è l’accabadora, colei che aiuta a lasciare la vita perchè se si ha bisogno d’aiuto per nascere, lo si ha anche per morire. Questa è la filosofia dell’anziana che esce di notte avvolta nello scialle nero sullo sfondo di una Sardegna degli anni Cinquanta dove ancora valgono leggi non scritte, che esulano da quelle previste dai codici sanciti. “Accabadora”  è un dipinto dove le parole oltrepassando il loro valore semantico per diventare colori e tratti di pennello, risvegliando immagini e sensazioni. Non è un libro che si legge, è un libro dove si entra e quasi si partecipa di soppiato, dove lo stupore non permette più di lasciare la scena sino all’ultima pagina. E anche una volta chiuso il libro, la mente ritorna a quel film perchè quel che il romanzo è riuscito a seminare dentro difficilmente si dissolve. Quando si è vissuti per 169 pagine insieme all’ingenuità di una bambina e al suo trasformarsi in donna consapevole del lutto e del dolore, insieme ad una vecchia che porta la morte nelle case con la consapevolezza di compiere un gesto d’amore utile prima di tutto al sofferente e poi alla famiglia e all’intera comunità, quando si è conosciuto un mondo inimmaginabile, di cui non si aveva notizia prima di posare gli occhi su quelle pagine, non si può più tornare indietro. L’abbacadora diventa, allora, una presenza interiore fatta di mille interrogativi, di nessuna certezza se non quella d’aver preso una profonda coscienza della sofferenza, della fine, della pietà.