“Ogni mattina a Jenin” di Susan Abulhawa

«Mi batto perché i bambini palestinesi abbiano diritto all’infanzia»

Intervista a Susan Abulhawa, scrittrice palestinese, autrice di “Ogni mattina a Jenin”

Susan Abulhawa

«Questa è la storia di una famiglia araba lungo i sessant’anni del conflitto israelo-palestinese. Anche se racconta di tragici lutti e indicibili dolori, questa è una storia d’amore – l’amore tra un contadino e la sua terra; tra una madre e i suoi figli; tra un uomo e una donna; tra amici. Ho messo il mio cuore in ogni pagina di questo romanzo: spero che Ogni mattina a Jenin tocchi i vostri cuori e le vostre menti, che vi ricordi la nostra comune umanità».
Susan Abulhawa è nata in una famiglia palestinese costretta alla fuga dopo la Guerra dei Sei Giorni e ha passato una parte della sua infanzia in un orfanotrofio a Gerusalemme. Trasferitasi negli Stati Uniti, paese dove ha studiato e ha lavorato nel campo della medicina e di cui ha acquisito la cittadinanza, vive da anni in Pennsylvania. Una decina di anni fa ha fondato l’associazione “Playgrounds for Palestine” per sostenere i progetti in favore dei bambini palestinesi, il loro diritto a giocare e a divertirsi come tutti gli altri piccoli del mondo: «Costruiamo strutture di gioco per i bambini palestinesi che spesso non le hanno mai viste, non hanno nemmeno idea di cosa si tratti», spiega. Nel 2006 Abulhawa ha pubblicato il suo primo romanzo Nel segno di David,  cui fa seguito Ogni mattina a Jenin, Feltrinelli.  Per Susan Abulhawa la Palestina non è solo un orizzonte di diritti da conquistare e o una pace da costruire, nella sua storia personale ci sono le tracce di un dolore collettivo che le ultime generazioni di giovani palestinesi continuano a sentire proprio anche nell’esperienza della diaspora.

“Ogni mattina a Jenin” ripercorre l’intera storia del popolo palestinese, dal 1948 e dalla nascita dello Stato di Israele fino ad oggi. Quale il bilancio che se ne può trarre?
Si è cercato di cancellare la nostra storia che però continua a fluire fino ad oggi. La società palestinese è stata distrutta sia dall’occupazione militare che dall’interno, nel senso che si è cercato anche di distruggere la cultura e le istituzioni dei palestinesi. Ma, malgrado tutto ciò il popolo palestinese continua la sua resistenza attraverso tante forme, tra loro anche molto differenti. Personalmente credo che la forma di resistenza più forte sia la stessa scelta di continuare a vivere lì, il cercare di costruirsi giorno dopo giorno una condizione “normale” di esistenza in una situazione drammatica, terribile: andare a scuola, lavorare, vivere quotidianamente in mezzo alla violenza e al dolore. In una situazione del genere ciascuno cerca il suo modo per resistere; il mio è quello di occuparmi dei progetti per i bambini palestinesi e scrivere romanzi.

Con l’associazione “Playgrounds for Palestine” lei cerca da tempo di restituire ai piccoli palestinesi quel senso del gioco e dell’innocenza che il conflitto gli ha spesso negato. Immagina che, dopo la nascita di uno Stato palestinese, le future generazioni dei due popoli sapranno convivere?
Me lo auguro. Quello che faccio con l’associazione è perché credo che ai bambini vada concesso di essere fino in fondo bambini, liberi e spensierati. Allo stesso modo credo che la pace verrà solo con la giustizia. Noi per il momento cerchiamo di portare amore tra i piccoli della Palestina. Perciò sì, mi auguro che in Palestina tutti i popoli che sono sempre vissuti su questa terra imparino a convivere al di là della loro religione o delle loro idee politiche, ma la condizione perché tutto ciò si realizzi è che siano  sullo stesso piano, abbiano gli stessi diritti. E, per quanto riguarda i più piccoli, lo stesso diritto a essere bambini.

Lei vive da tempo negli Stati Uniti, oltre al ruolo della diplomazia internazionale pensa che anche il dialogo tra la diaspora palestinese e quella ebraica, entrambe presenti negli Usa, possa aiutare a costruire un futuro di pace? 
Accanto agli sforzi della comunità internazionale e a quelli di singole figure della politica e della cultura mondiale, ci sono diversi segnali interessanti che arrivano anche dalla stessa società israeliana. E’ il caso del lavoro importante che svolge il movimento Peace Now. Ma anche negli Usa ci sono diverse associazioni ebraiche che pensano che la ricerca della pace passi per il raggiungimento di una sostanziale uguaglianza tra gli arabi e gli ebrei della Palestina, vale a dire perché ai palestinesi venga riconosciuto il diritto alla terra e alla libertà come agli ebrei.

Lei è una donna molto attiva nella difesa dei diritti dei palestinesi, non le sembra che la società palestinese sia molto cambiata, specie sotto la pressione della religione, rispetto allo spazio che vi occupano le donne un tempo? 
Il clima nella società palestinese è certo cambiato, ma non credo che il ruolo delle donne sia davvero mutato. Intendo dire il ruolo che le donne esercitano in profondità, lo spazio che occupano nel tessuto sociale della Palestina. La società palestinese ha sempre avuto un profilo matriarcale, e questo elemento non mi pare sia stato messo in discussione. Soltanto le donne hanno oggi anche un ruolo esplicito nel mondo del lavoro e responsabilità pubbliche anche esterne alla famiglia. Da questo punto di vista non mi sembra che le donne siano scomparse dallo spazio pubblico, abbiano rinunciato alla loro partecipazione al movimento di resistenza, solo che è forse cambiata la modalità di questa loro partecipazione alla lotta. Il cambiamento portato dalla religione tra i palestinesi è visibile in diversi aspetti ma non credo sia sulle donne che sta avendo il maggiore effetto.

Guido Caldironin data:14/05/2011 DA LIBERAZIONE.IT