Bergamo, 15 Marzo 2015 – cronaca spiccia del nostro spettacolo “Però mi vuole bene” presso la Casa Circondariale
La giornata è incerta, doveva piovere, invece sembra arrivare una luce strana dal cielo, ma non è il sole, l’astro oggi non ne vuol proprio sapere di farsi vedere. Fa più freddo del previsto, colpa dell’aria gelida che oltrepassa il grande palazzo che abbiamo di fronte. Non ci facciamo caso ed entriamo nel cortile. Percorriamo i lunghi spazi, camminando, ridendo e scherzando, un po’ indisciplinate, senza pensare seriamente alla nostra destinazione, quasi fossimo un gruppo di studentesse in gita scolastica. Qualcuna di noi chiede ad alta voce se per caso c’è un bar. Qualcun’altra ribatte scherzosamente e a quel punto realizziamo: “Accidenti! Siamo in carcere!”.
Ora tutto quello che ci sembrava molto particolare, perfino divertente si scontra con la realtà di quello che è. Un carcere. Un luogo che di divertente non ha nulla, soprattutto per quelli che ci stanno dentro.
Entrare in un luogo che non si conosce mette sempre una certa soggezione. Quello che si prova entrando in questo luogo è un senso quasi di smarrimento e di eccitazione allo stesso tempo; un senso di vuoto riempito da mille percezioni dalle quali si è pervasi.
L’attesa è breve e lunga nello stesso tempo…serve un controllo rigoroso per un gruppo numeroso come il nostro. I nomi son tutti nella lista, vietato portarsi appresso il cellulare, e dopo il controllo delle borse possiamo passare oltre.
Dallo scudo la nostra arpista scarica il suo ingombrante strumento mentre noi tutte osserviamo attentamente l’operazione minuziosa di imbragatura e speriamo in cuor nostro che non finisca troppo in fretta, che ci dia il tempo di prepararci per grado all’emozione che ci aspetta. C’era abbastanza agitazione tra noi all’inizio ma, a mano a mano che ci addentriamo, le porte dietro di noi si richiudono a chiave e il silenzio ci avvolge come uno scudo protettivo.
Veniamo condotte in una vera sala teatrale che potrebbero ospitare oltre 200 persone, ma siamo consapevoli del fatto che il nostro pubblico non sarà così numeroso.
La nostra energia si concentra nella preparazione degli elementi dello spettacolo.
Posizioniamo le casse, accendiamo i microfoni, sistemiamo le luci. Arpa e violino ripassano qualche passaggio musicale, le cantanti provano il loro brano, sperimentiamo l’entrata e l’ uscita delle lettrici dalla scena.
L’orologio segna le 14.15 e stipate dietro le quinte, possiamo dare il via al nostro show.
La sala si riempie nelle prime file sul lato destro. C’è il personale carcerario di turno cioè le guardie, qualche ispettore, qualche dirigente, alcune volontarie e poi… ci sono LORO. Soltanto 16, qualcuna ha preferito rimanere in cella.
“Quante sono?” “Come sono?” “Dove sono?” Da dietro le quinte l’impazienza del contatto è contagiosa e poi…. un tuffo al cuore quando le intravediamo perché sono tutte, tremendamente, TROPPO giovani…
Le letture si susseguono, ci diamo il cambio sul palco e la musica intervalla le nostre storie di dolore. Soltanto allora ci accorgiamo che qualcosa stride. Realizziamo in un flash che forse la nostra performance può sembrare sfacciata e presuntuosa in questo contesto. Noi che sventoliamo ai quattro venti queste storie di delirio e sofferenza, ma solo per sentito dire.. che cosa ne sappiamo dei pensieri o del vissuto di chi in questo momento di fronte a noi ci sta ascoltando?
Ma ormai è troppo tardi.
Tre ragazze non reggono all’emozione e lasciano la sala in lacrime con rabbia.
I nostri monologhi hanno forse risvegliato una ferita dormiente che avrebbero preferito lasciare muta, rintanata dentro di loro, talvolta fa meno male far finta di niente.
Ma per fortuna nostra il pubblico che rimane ci accompagna consenziente sino alla fine, poi gli applausi piovono calorosi, e qualcuna di loro ci raggiunge sul palco per cantare insieme a noi. Concediamo il bis e questo momento euforico ci solleva per una frazione dal senso di disagio.
Grazie Direttore il tuo intervento ci ha scagionato, ti è sicuramente arrivato il nostro senso di colpa e hai spiegato con chiarezza il motivo del dissenso di quelle giovani. Ci hai sollevato dalle nostre responsabilità. Hai elogiato il nostro lavoro riconoscendoci il pregio di aver dato il via ad un percorso che condurrà a lavorare con quelle ragazze sulle LORO emozioni.
Grazie! Grazie per questa esperienza forte che ci ha sicuramente arricchito un po’ di più.
Smontiamo tutto velocemente, fretta di andar via, fretta di lasciare la sensazione di amarezza, il dubbio di avere pasticciato con cuori vulnerabili. Andiamo di corsa fuori, oltre le sbarre, oltre il rigore, impazienti di riafferrare le nostre certezze, consapevoli che i pensieri cupi tra non molto verranno accantonati.
Ci portiamo appresso un LORO regalo: un pacchetto di biscotti deliziosi che LORO stessi producono, sono i LORO abbracci. CALDI E DOLCI ABBRACCI. E il nome di questi dolcetti non lascia spazio a fraintendimenti: DOLCI SOGNI LIBERI…margherite al mango.
N.M.