“Dalia” di Concita De Gregorio (da “Malamore”)

 

Edward Munch – Pubertà

“Dalia” di Concita De Gregorio
da “Malamore”

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Il mio nome è Dalia. Se fossi nata fiore avrei voluto essere giallo: come il sole, come i campi d’estate davanti a casa mia. Quello che vi chiedo è di ascoltare la mia storia perchè potrebbe essere la vostra. Non voglio compassione, né pietà, né aiuto: non mi servono, non servono a nessuno. Non serve niente dopo, serve prima. Perciò voglio solo chiedervi: avete una figlia di dodici anni? Conoscete una bambina di quella età? Ricordate i vostri dodici anni? Ecco: quella sono io.

Vi porto a casa mia, entrate. E’ questa: piccola sì, non c’è nemmeno l’acqua corrente e per andare in bagno bisogna uscire fuori. Anche d’inverno, quando c’è la neve: fa freddo ma ci si abitua. Anzi, mia nonna, che adesso ha quasi novant’anni e una pelle di bambola, dice che è il freddo a mantenerci così: lisci, sani. Il mio letto è quello con la stoffa a fiori. A voi che vivete nelle case di città sembrerà una baracca, lo so che le chiamate così le nostre case: baracche. E’ come quando ci guardate e ci dite: poveretti. Sono parole che non mi piacciono. Anche se sono dette con dispiacere, è proprio quello che non mi piace, la pena nello sguardo degli altri. La mia casa va bene così, è la mia casa.

Quando ero molto piccola mi chiamavano regina. Mia nonna mi diceva: in questo angolo di mondo è nata una regina, sei bella come la prima stella della notte, sarai la nostra ricchezza. Io ero sicura che sarei stata una regina davvero prima o poi. Che sarebbe arrivato un re a portarmi via e che poi sarei tornata con una macchina bianca a prendere mia nonna e mia madre, i miei fratelli piccoli: li avrei portati tutti a palazzo. Mio padre non lo so chi è, non c’è mai stato un uomo a casa nostra. Mia madre esce il pomeriggio, la vengono a prendere, va a lavorare nel paese vicino: torna la notte, a volte non torna, però basta aspettare perchè prima o poi torna sempre. E’ molto stanca, di mattina dorme. Aspetta un altro figlio, ne ha sette. i miei fratelli grandi sono partiti, in casa adesso siamo in quattro.

Sarai la nostra ricchezza. Era una frase bella ma non sapevo perchè: pensavo che sarei stata ricca con la bellezza, con il re che sarebbe venuto a prendermi di certo. Poi ho compiuto dodici anni, l’età in cui si trova marito. Non avevo ancora il seno grande, non ero diventata una ragazza ma aspettavo: da un giorno all’altro succederà, mi diceva mia nonna. Per il mio compleanno abbiamo raccolto dei fiori, con i miei fratelli, e abbiamo cucinato una zuppa con la farina scura, buonissima. Io mi ero pizzicata le guance per farle diventare rosse come quelle delle bambole, delle signore. La nonna mi aveva intrecciato i capelli biondi in una corona sulla testa.

Gli uomini che venivano a prendere mia madre mi hanno vista così, ero proprio una regina. Hanno parlato tra loro e con mia nonna, mi guardavano e ridevano, poi sono andati via. La mattina dopo la mamma piangeva. Mi ha detto solo “E’ venuto il momento di partire, regina. Poi quando avrai abbastanza soldi ti potrai sposare”. Così ero felice: avrei avuto i soldi per sposarmi. Dovevo solo trovare il re. La nonna mi ha venduta per ottocento dollari. Moltissimi, li ho visti: so quanti erano perchè li ha contati. Sono venuti quegli uomini, sono entrati in casa e da una sacca scura hanno tirato fuori tanti soldi come non ne avevo visti mai. Hanno contato per un mucchio di tempo, i miei fratelli sono venuti vicino e battevano le mani, sembrava una festa. Cosa avremmo fatto con tutti quei soldi enormi e colorati? Saremmo partiti, avremmo comprato una casa in città, una macchina, una tv? Avremmo avuto una casa con l’ascensore, addirittura? Però no, non volevo andare via da casa mia, non volevo una casa in città. ho chiesto alla nonna “a cosa servono tutti questi soldi?” e lei mi ha detto: a vivere, a mangiare, li terrò io nascosti e una parte quando tornerai sarà per te. Perchè, dove vado? Vai a lavorare, mi ha detto. Vai con questi uomini che ti portano dove avrai una casa più calda e un lavoro, non avere paura. Però io avevo paura, tanta. Ma la nonna era la nonna, la nonna decideva sempre per noi e io ero la sua regina. La sua ricchezza, ecco perchè. Era per me che pagavano tanto. Così sono andata.

Avevo dodici anni. Come vostra figlia a dodici anni, come voi al tempo della scuola. Il viaggio è stato lunghissimo. Nel posto dove siamo arrivati parlavano una lingua che non capivo. Non conoscevo nessuno. Mi hanno dato un letto in una stanza: la casa era più calda, sì, ma non era la mia. Entravano uomini a vedermi, parlavano di me con altri uomini. Sono passati i giorni. Dormivo, aspettavo. Alla fine quello coi baffi sottili mi ha detto alzati, partiamo. Sono partita in macchina con due sconosciuti, abbiamo attraversato una città e siamo arrivati al mare. Sono salita su una nave, sono arrivata in un altro posto, un’altra stanza, un altro letto. Non avevo niente con me, solo le mie scarpe e i miei vestiti: una borsa piccola. Anche un fiore secco, uno di quelli del mio compleanno.

Non voglio parlare di quel posto dove sono stata né di quello che mi è successo. Non c’è niente da raccontare. Era uguale ogni giorno, orribile. Le ore non passavano mai. La gente che entrava non la vedevo neanche in faccia, non ricordo nessuno. Solo odore di umidità, puzzo, sudore, mani, vestiti sporchi. Non voglio parlarne. Dopo un po’ ho smesso di piangere perchè se piangi, mi dicevano, nessuno ti vuole e ti buttiamo in mare. Ho avuto due figli, non so dove siano, li ho partoriti in casa, li hanno portati via. Non so se erano maschi, femmine. Li ho sentiti uscire da me, piangere mentre li portavano fuori dalla stanza, non li ho visti.

Un giorno uno degli uomini che veniva mi ha picchiata, era ubriaco, rideva, mi ha tagliata dappertutto con un piccolo coltello, rideva, alla fine mi ha aperto la faccia. Sentivo il sangue ma non il dolore. Mi ha curata una donna che non parlava mai. Con il segno sulla faccia valevo di meno, non mi volevano più. E’ una cicatrice che sembra una corda in rilievo, arriva fino alla bocca. L’ho vista un giorno in un pezzo di specchio. Non sono più bella come la prima stella della notte, ho pensato solo. Non ho pianto. Ho pensato che forse sarei tornata a casa, se ero brutta. Così ho cominciato a tagliarmi da sola. Sulle braccia, sul petto, sulla pancia. Ho segni dappertutto adesso. Ma ho fatto bene, lo sapevo che dovevo fare così: diventare brutta e farmi buttare via. Mi hanno buttata via infatti.

Un giorno mi hanno fatto salire in macchina e mi hanno portata in un campo, pensavo che mi volessero ammazzare invece mi hanno solo fatta scendere. Vai, hanno detto. Era notte, c’era un campo ed una strada senza luci. Ho sentito la macchina andare via, poi solo il rumore del mio cuore. Non so come, sarà stata la paura o la stanchezza, mi sono addormentata. La mattina dopo ho cominciato a camminare lungo la strada, è passato un camion, mi ha fatta salire. L’uomo mi ha portata a casa sua e mi ha tenuta lì molti giorni, pensavo che volesse tenermi come moglie ma non mi parlava mai. Veniva la sera ripartiva la mattina. Ero sua moglie, ho pensato. Va bene, resto qui. Poi però invece si è stancato. Mi ha detto vai. Credo che mi abbia detto vai, insomma: mi ha dato la borsa coi miei vestiti e mi ha portata davanti a una chiesa.

Così sono tornata a casa. Un prete, poi della gente in un ufficio, poi dei soldati, poi un ospedale, poi uno che parlava la mia lingua, poi un aereo enorme. A casa ci sono arrivata a piedi. Mi hanno lasciata al villaggio vicino ma io la strada me la ricordavo benissimo. L’ho vista subito, da lontano. Mio fratello, quello piccolo, stava giocando fuori. L’ho riconosciuto, lui no.
La nonna è morta. La mamma non torna da settimane, mi ha detto Eric, che adesso è il capofamiglia: ha quattordici anni. Mio fratello piccolo, nato quando io non c’ero, ne ha dieci.
Cos’hai fatto alla faccia, mi ha chiesto. Niente, si è rotto un vetro. E sulle braccia? Niente, una malattia, ma sono guarita. Mi sono stesa sul mio letto, la stoffa a fiori era la stessa. Eric mi ha detto che un giorno spostando delle pietre hanno trovato dei soldi: il tesoro della nonna. Così non abbiamo problemi a vivere, abbiamo i soldi per mangiare e poi lui lavora, adesso, lavora ogni tanto per certi che costruiscono case. Quello che c’è ci basta, se vuoi restare, mi ha detto. Io sì che voglio restare.

Non voglio parlare con nessuno di quello che è successo, voglio solo stare qui. Diventare vecchia come mia nonna, cucinare zuppa quando c’è la farina. Non verrà un re, lo so. Per fortuna non verrà più nessuno.
Mi chiamo Dalia, come un fiore. Ho ventitrè anni, sono vecchia. Non avrò un marito, non avrò una macchina che viene a prendermi per portarmi a palazzo. Non ricordo più niente di prima. Non so. Non ho memoria di nulla. Non ho sorelle, solo maschi. Non ci sarà nessuno che verrà a portarli via.
E’ una fortuna non avere figlie femmine.
Le femmine sono una ricchezza, ma per poco.
Le femmine vivono solo dodici anni.