“L’ho uccisa perché l’amavo” di Loredana Lipperini e Michela Murgia

lipperini_murgia1

 

Delitto passionale. Raptus. Gelosia. Depressione. Scatto d’ira. Tragedia familiare. Perché lei lo ha lasciato, chattava su Facebook, non lo amava più, non cucinava bene, lavorava, o non lavorava. Nascondendo la vittima le cronache finiscono con l’assolvere l’omicida: una vecchia storia, nata in tempi lontani e ancora viva fra noi. Per questo, ci dicono Loredana Lipperini e Michela Murgia in “Lho uccisa perché l’amavo” Falso!, bisogna imparare a parlare di femminicidio. Tutti, non solo i media. Dobbiamo farlo noi. Dobbiamo trovare le parole.

Esistono tre tipi di reazione davanti al numero delle morti delle donne in Italia. C’è chi le chiama femminicidio perché le considera un fenomeno con ragioni e caratteristiche specifiche e sente l’esigenza di costruire percorsi di lotta culturale e giuridica che le affrontino in maniera consapevole. In seconda battuta viene chi rifiuta nettamente l’idea che si tratti di morti diverse da tutte le altre morti e quindi nega la necessità di nominarle e affrontarle con metodi specifici.

La terza tipologia di reazione è più sfumata e apparentemente conciliatoria. Interessa tutti quelli e quelle che ritengono che, sì, le morti delle donne siano un fenomeno effettivo e che la similitudine delle circostanze in cui si verificano sia tale da poter parlare di denominatore comune, ma che questo denominatore comune non vada per nulla cercato nella cultura maschilista che assegna un valore funzionale alla vita delle donne. Queste persone sono convinte che il conflitto che lascia morte sul campo decine di donne all’anno sia invece frutto della “guerra ideologica” aperta dal femminismo con le battaglie per i diritti e la parità sessuale. L’insistenza sulla parità avrebbe radicalizzato il conflitto e lo avrebbe portato fino alle sue estreme conseguenze – afferma questa lettura delle cose – mentre la strada per ridurlo sarebbe stata piuttosto quella di ripristinare l’armonia di ruolo tra i sessi. Naturalmente, questa ricerca dell’amor di pace tra uomini e donne non può essere perseguita chiamando la morte delle donne “femminicidio”, perché già il semplice uso del termine apre di fatto un processo d’accusa contro il genere maschile in quanto tale.

Questa posizione è molto più popolare di quanto non si creda e nasconde una costruzione di pensiero semplificata fino alla banalità e totalmente deterministica, riassumibile in tre passaggi di concetto:

  1. Esiste un ordine naturale delle cose nel rapporto tra uomo e donna che si basa sulla loro ontologica differenza non solo fisica, ma attitudinale. Cercare di modificare quest’ordine e di negare questa differenza porta conseguenze peggiorative nella vita di tutti. Lasciate l’ordine come l’avete trovato e nessuno si farà male.
  2. Gli uomini ci ammazzano, è vero, ma è perché sono fragili e infragiliti dalle nostre scelte. La messa in discussione del ruolo femminile li ha disorientati e lasciati senza certezze. Descritto come appartenente a un genere incapace di adattarsi ai cambiamenti socioculturali, secondo questa visione il maschio sarebbe ora una variabile impazzita che lancia a suo modo richieste d’aiuto affinché cessi il pernicioso processo di destabilizzazione dell’ordine naturale delle cose.
  3. Ad aprire il conflitto sono state le donne con rivendicazioni di parità che negano l’ordine naturale tra i sessi e cercano di minarne le fondamenta. Quello che accade dopo è, se non colpa, quantomeno conseguenza delle scelte delle donne, femminicidio compreso, le quali hanno però in mano il potere per rimettere le cose a posto e far cessare le ostilità: basta dichiarare di essersi sbagliate e tornare alla casella iniziale.


La filosofia del “torna al tuo posto”

La convivenza pacifica tra i sessi è una sfida, affermano i sostenitori del ritorno alla presunta armonia naturale, ma “una sfida che si può affrontare solo se ognuno fa la sua parte. L’uomo deve incarnare la guida, la regola, l’autorevolezza. La donna deve uscire dalla logica dell’emancipazione e riabbracciare con gioia il ruolo dell’accoglienza e del servizio”.

Le parole sono di Costanza Miriano nel suo libro Sposati e sii sottomessa, uno dei testi più espliciti sulla convinzione che il problema della violenza e della morte delle donne nasca dalle scelte delle donne stesse, che rifiutandosi di “stare sotto”, quindi di porsi come pilastro portante dell’intera impalcatura del sistema di dominio patriarcale, fanno crollare l’armonia iniziale stabilita alle origini del cosmo, da Dio o dalla natura stessa. Chi ha fatto propria questa visione pretende di partire da un dato incontrovertibile – che l’uomo e la donna siano fisicamente differenti – per fondare su questa differenza una gerarchia di poteri e una pre-assegnazione di ruoli e attitudini. Appartengono a questa scuola di pensiero tutti quelli che ritengono che la donna sia per natura più sensibile, accogliente e predisposta alla cura dell’uomo e dei figli, mentre il maschio sarebbe più adatto al comando, alla razionalità e all’esercizio dell’autorità morale. Questa divisione delle attitudini è molto fondata anche nell’educazione cristiana, che assegna alla volontà divina la distribuzione delle inclinazioni e il relativo posto nell’ordine della Creazione. Nessuno meglio di Victor Hugo l’ha saputa sintetizzare in questa famosa poesia, L’uomo e la donna, composta a metà dell’Ottocento:

L’uomo è la più elevata delle creature.
La donna è il più sublime degli ideali.
Dio fece per l’uomo un trono, per la donna un altare
Il trono esalta, l’altare santifica.
L’uomo è il cervello. La donna il cuore.
Il cervello fabbrica luce, il cuore produce amore.
La luce feconda, l’amore resuscita.
L’uomo è forte per la ragione.
La donna è invincibile per le lacrime.
La ragione convince, le lacrime commuovono.
L’uomo è capace di tutti gli eroismi.
La donna di tutti i martìri.
L’eroismo nobilita, il martirio sublima.
L’uomo ha la supremazia.
La donna la preferenza.
La supremazia significa forza;
la preferenza rappresenta il diritto.

Sono parole seducenti per i fautori dell’armonia tra i sessi, un ideale il cui altissimo costo va messo senza sconti in carico alle donne, chiedendo loro di sentirsi liete che l’ordine primigenio le consideri capaci di ogni martìrio, e pazienza per chi la martire non la voleva fare.

Victor Hugo aveva una formazione religiosa e apparteneva al suo tempo, ma non va commesso l’errore di credere che i pensieri retrogradi che ancora oggi assegnano alla natura le responsabilità della cultura appartengano solo al conservatorismo cattolico. Spesso la convinzione che le donne siano “migliori” per natura nel compiere determinate cose fuoriesce dalla penna o dalla bocca di insospettabili teste progressiste, a comprova che non bastano tutti gli strumenti critici della nostra modernità per scardinare convinzioni vecchie di secoli. Se il ruolo è naturale e appartiene a un ordine originario, l’invito collaterale non può che essere quello di tornare ad assumerselo, riprendendo a occuparsi della famiglia e della casa e a fare esercizio di umiltà davanti alla propria errata convinzione di aver diritto alle stesse opportunità di scelta degli uomini. Diversamente può accadere di tutto.


Moltiplicatrice di sofferenza

Sovvertire l’ordine non conviene. Se la natura ha stabilito che l’uomo domini e che la donna gli sia sottomessa, ogni tentativo di ristabilire un equilibrio paritario non può che scatenare la reazione del maschio spodestato, descritto come un essere immutabile senza la minima capacità di ridefinire il proprio ruolo nel mondo. E del resto perché mai dovrebbe farlo, se quel ruolo è naturale? Di nuovo occorrerà citare a titolo di esempio le motivazioni della sentenza Parolisi, che qui non ci interessano per il merito giudiziario, ma solo per la preoccupante visione culturale che esprimono. Melania Rea secondo il giudice non è stata uccisa solo perché ha rifiutato di prestarsi a un rapporto sessuale con il marito, scatenando la sua reazione omicida. Per il giudice le ragioni dell’attrito tra i due coniugi dipendevano anche da quello che nelle motivazioni viene definito il carattere “dominante” di lei, unito al dislivello culturale ed economico tra le rispettive famiglie di provenienza. Questa presunta differenza di poteri sociali e familiari a così evidente vantaggio di Melania Rea avrebbe prostrato il suo omicida, riducendolo in condizioni di sudditanza fisica e morale. Frustrato e avvilito da questa situazione, e per di più pressato da “esigenze sessuali” impellenti che non trovavano soddisfazione, Parolisi uccidendo la moglie non avrebbe fatto altro che reagire “all’ennesima umiliazione”. Il messaggio è più che chiaro: se a essere avvantaggiato da un dislivello socio-economico è l’uomo, nell’economia relazionale della coppia non si creerà alcun conflitto. Se invece il vantaggio va a beneficio della donna, l’uomo accumula frustrazione e umiliazione, sentimenti oscuri che possono portare a qualunque conseguenza. L’importante è ricordare che quella conseguenza sarà la reazione naturale all’indebita pretesa di instaurare un ordine non naturale.

I fautori del femminicidio come reazione alla rottura dell’armonia tra i sessi tendono a porre la morte delle donne e le violenze di cui sono continuamente oggetto su un piatto della bilancia e a mettere sull’altro piatto tutte le sofferenze che le scelte delle donne, obnubilate dall’ideologia femminista, starebbero da decenni causando alla società. Che proporzione può esserci tra le violenze di genere e il divorzio? Bambini contesi e privati dell’armonia familiare, cresciuti privi di riferimenti affettivi. Uomini cacciati di casa e in fila alla mensa della Caritas perché gettati sul lastrico dagli assegni di mantenimento. Centinaia sono le famiglie sfasciate e le esistenze disperse dove trovano posto più alti numeri di suicidi e maggiore frequenza nell’uso di antidepressivi e alcool. Questo è il prezzo della libertà delle donne, sembrano dire i loro ragionamenti. Che proporzione può esserci tra 130 donne morte in un anno e 4000 bambini uccisi dall’aborto nell’arco dello stesso periodo? Perché le prime dovrebbero essere un danno inaccettabile e i secondi sono invece un diritto civile delle donne? Avete voluto l’affermazione di una cultura di morte e ora vi lamentate se la morte riguarda voi. Se foste rimaste sacerdotesse della vita e della famiglia, nulla vi sarebbe accaduto. La donna sottomessa e felice di essere sposa procreante riporta la pace e l’equilibrio nel cosmo familiare, ponendosi nuovamente come custode vigile del focolare confortante, spalla del marito, guida dei figli e utile ammortizzatore sociale. Smettete di chiamare libertà una cosa che causa tante sofferenze.

Basta dunque accettare la sottomissione per costruire l’armonia ed evitare il peggio? Sempre Costanza Miriano, teorica pop della naturalità del ruolismo tra i sessi, sostiene di sì. In una intervista del 1° ottobre del 2011 rilasciata a margine di un convegno di giuristi cattolici, la scrittrice e giornalista così teorizzava:È una condotta che produce una dedizione anche da parte del […] in risposta a questo amore che guarda con accoglienza totale e preventiva, l’uomo non può che rispondere con una dedizione altrettanto […] cioè non significa che se la donna accoglie, l’uomo poi se ne va sul divano a guardare la televisione, perché, anzi, è proprio questa accoglienza e questa generosità che risveglia nell’uomo il desiderio di fare altrettanto.

Una visione così naïve della realtà sarebbe disarmante se non offrisse i suoi puerili argomenti a sostegno del ritorno della donna all’interno della griglia funzionale del sistema patriarcale. Chi glielo dice che bastava essere sottomesse, non dominanti e di inferiore livello sociale, a quelle donne che sono morte per mano di uomini ricchissimi e potenti e che alla carriera del marito avevano sacrificato l’esistenza, il titolo di studio e le loro eventuali ambizioni? Chi spiega che bastava essere creature accoglienti e preventive alle casalinghe tradizionali, mogli in tutto dipendenti dal lavoro del marito e comunque uccise davanti ai figli che avevano cresciuto come Dio comanda? In Italia e nel mondo muoiono donne di ogni ceto e ogni educazione, uccise da uomini potenti, ricchi e colti nella stessa misura in cui a farlo sono uomini poveri, ignoranti o in fondo alla scala sociale. Su ogni articolo di giornale queste morti vengono minimizzate e i loro assassini preventivamente assolti davanti all’opinione pubblica grazie all’ipotesi di aver agito per disturbi psichici e disagi umani. Ma l’idea che le donne siano responsabili dell’aumento della sofferenza del mondo esattamente perché cercano di sottrarsi alla propria è un pensiero portatore di un’ingiustizia non misurabile. Non accettiamo di considerare naturale un mondo che costruisce la sua armonia sulla sofferenza volontaria di un intero genere.

Loredana Lipperini e Michela Murgia, “Lho uccisa perché l’amavo” Falso!, pp. 45-54

 

__________________________

Loredana Lipperini è giornalista, scrittrice e conduttrice radiofonica. Collabora con le pagine culturali de “la Repubblica” ed è una delle voci storiche di Fahrenheit su Radio Tre. Il suo blog si chiama www.lipperatura.it. Ha pubblicato, fra l’altro, Ancora dalla parte delle bambine (2007), Non è un paese per vecchie (2010), Di mamma ce n’è più d’una (2013), tutti per Feltrinelli.

Michela Murgia nel 2006 ha pubblicato con Isbn Il mondo deve sapere, diario tragicomico di un mese di lavoro, che ha ispirato il film Tutta la vita davanti di Paolo Virzì. Per Einaudi ha pubblicato: Viaggio in Sardegna (2008); il romanzo Accabadora (2009, Premio Campiello 2010); Ave Mary (2011); Presente (con Andrea Bajani, Paolo Nori e Giorgio Vasta, 2012); L’incontro (2012).

michela murgia e loredana lipperini